Sabato 31 Luglio 2010 16:38
Cristiano Canali
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Con estrema disponibilità e cordialità, EMI Italia ha dato la possibilità a EDDIE’S di sentire The Final Frontier una ventina di giorni in anticipo rispetto all’uscita nei negozi di tutto il mondo: l’interesse e la curiosità erano ovviamente alle stelle e poter scoprire traccia dopo traccia il quindicesimo studio album della propria band preferita su un impianto audio di tutto rispetto, negli uffici di quella che è, a tutti gli effetti, la fabbrica di tanti anni di emozioni in ogni supporto audio/video esistente, è stata un’esperienza emozionante e anche un po’ intimorente.
Come molti di voi, nonostante i tanti preascolti dovuti alla collaborazione con riviste o artisti vari, mi sono sempre tenuto il piacere di scartare con cura ‘l’ultimo album degli Iron Maiden’ seduto sul letto il giorno della sua uscita ufficiale, per poi immergermi in un mondo parallelo ad occhi chiusi per tutta la sua durata. Sicuramente scrivere e annotare appunti non mi ha permesso di riprodurre lo stesso rituale, ma un buon paio di cuffie mi ha isolato abbastanza dal resto del mondo per farmi dedicare per quasi ottanta minuti solamente al sestetto inglese e alla sua nuova creatura ‘spaziale’.
La premessa che mi sento di fare dopo l’ascolto di The Final Frontier è abbastanza obbligatoria, nonostante possa risultare a qualcuno banale o superflua: gli Iron Maiden non hanno mai inciso un album che non poggiasse i piedi sul lavoro che lo ha preceduto. Se esaminate attentamente la loro discografia, potete fare da soli i collegamenti legati a sound, produzioni, stili compositivi ed esecutivi, scelta di suoni e strumenti, lunghezza dei brani e loro collocazione nelle tracklist, arrangiamenti e tematiche trattate: in ogni album della band è possibile trovare qualcosa che è spuntato in precedenza, rielaborato o portato ad un diverso livello di intensità. In particolare, lo sviluppo degli album post reunion è stato caratterizzato da elementi evidenti e ben precisi:
- Brave New World (2000) ha sviluppato molte sonorità introdotte da Virtual XI con la rielaborazione in chiave Dickinson di materiale composto nell’era Blaze.
- Dance Of Death (2003) ha mantenuto l’immediatezza e compattezza di alcuni brani tipiche del suo predecessore, enfatizzando però maggiormente l’aspetto epico e teatrale di tracce più lunghe ed elaborate, caratterizzate da introduzioni lente e atmosferiche, con chitarre e basso arpeggiati e voce di Bruce in tonalità basse e ‘narrative’.
- A Matter Of Life And Death (2006) ha esasperato quasi unicamente le caratteristiche di brani come ‘Dance Of Death’, ‘Paschendale’ o ‘Face In The Sand’, dando vita ad una scaletta di pezzi lunghi, con introduzioni slow e spesso melodiche/di atmosfera e svariate pause e cambi di riff, con il risultato di creare maggiore disomogeneità all’interno degli stessi, blocchi di strofe ripetute più volte insieme ai ritornelli, due o tre assoli di chitarra, riff diversi, parti armonizzate e reprise finale delle intro delle singole canzoni.
Tenendo conto di questi elementi, delle dichiarazioni d’amore dei Maiden nei confronti di AMOLAD (A Matter Of Life And Death) e della scelta di riproporlo per intero dal vivo (assolutamente insolita e senza precedenti per la band), era doveroso avere praticamente la certezza che The Final Frontier non potesse in alcun modo configurarsi come un collage di dieci singoli da quattro minuti di durata l’uno ma, al contrario, esasperasse ulteriormente le caratteristiche del suo predecessore. Molti fan hanno avuto il sospetto o il sentore (mistico?) che i Maiden realizzassero un album ‘vecchio stile’ molto più immediato, veloce, agile e vicino ai pezzi da Best Of precedenti all’abbandono di Dickinson, e hanno cercato in ogni modo di autoconvincersi di questa presunta scelta, interpretando perfino la location degli studi di registrazione (Compass Point Studios, Bahamas) come un inequivocabile segno di ‘ritorno al passato’. Purtroppo per loro, The Final Frontier è esattamente l’opposto e chiunque stia leggendo queste righe se ne accorgerà da solo molto presto. Mettendo da parte i singoli (già fuorvianti in passato rispetto alle caratteristiche dei rispettivi album) ‘El Dorado’ e ‘The Final Frontier’(versione editata con circa quattro minuti in meno di quella presente sul CD), il nuovo lavoro è un disco lungo, complesso, atipico, difficile, sperimentale, complicato e distante ANNI LUCE dall’immediatezza di molti brani che oggi chiamiamo ‘ultra classici’ della band. Non voglio usare il termine abusato ‘prog’ perché per me il progressive resta comunque un’altra cosa, ma sicuramente le strutture di molti brani sono molto meno lineari e prevedibili di quello che ci si potrebbe aspettare dagli Iron Maiden. Se AMOLAD avesse richiesto un numero ideale di dieci ascolti per poter essere metabolizzato e digerito in pieno, The Final Frontier ne richiederebbe venti. Ognuno tragga le sue conclusioni in base ai propri gusti e inclinazioni, ma sappiate che a questo giro la band ha scelto davvero di sperimentare a livelli praticamente mai visti prima d’ora nella sua storia, con l’uso di suoni elettronici e campioni, chitarre effettate in diversi modi e presenti praticamente ovunque, tonnellate di lick e fraseggi di ogni tipo e il trionfo di strutture atipiche, variegate, con perenni cambi di melodia, parti vocali e riff, racchiuse nelle solite intro/outro lente e riflessive tipiche dell’ultimo corso della Vergine di Ferro. Un bene? Un male? Non sta a me dirlo, né a qualche ‘tuttologo del niente’ che in questo lavoro (sentito solo in anteprima al massimo un paio di volte!) ci vede solo soldi, vecchiaia, mollezza, commercialità e carenza di idee (probabilmente su Marte le canzoni commerciali durano in media sette minuti, per non parlare dell’irrilevanza di quelle centinaia di migliaia di ‘poveri rincoglioniti’ che, solo in queste ultime settimane, hanno cantato a squarciagola i brani post reunion ai concerti). Sta a voi, come sempre, valutare il loro operato, in base agli aspetti che più amate degli Iron Maiden. Personalmente posso dirvi che non amo il disco al completo, soprattutto i singoli, ma sono ansioso di risentire alcuni brani perché mi hanno lasciato letteralmente a bocca aperta e sono convinto che, dopo numerosi ascolti, mi stupiranno ancora di più. I credits del disco, a mio avviso, sono indicativi dell’estrema cura a livello chitarristico e della vena sperimentale dell’intero album: oltre all’onnipresenza di Steve Harris, infatti, troviamo ben sei brani in cui Adrian Smith figura come principale compositore e questo, per i più informati, significa automaticamente un aumento esponenziale di cura maniacale dei dettagli e maggiore enfasi a suoni e presenza di parti chitarristiche. Abbiate ancora un po’ di pazienza, manca poco al 16 agosto… poi mi divertirò io a leggere i vostri pareri! :)
1) SATELLITE 15… THE FINAL FRONTIER (Smith/Harris - 8.40 Min.): avete presente il singolo con video stile ‘Indiana Jones dello spazio’? Bene, quello arriva dai 4.15 minuti in poi. Prima ci si trova davanti ad una super introduzione dal sound spaziale, con basso elettronico potentissimo, un drumming imperioso dal sapore tribale, sequenze di accordi e un’atmosfera di attesa molto cinematografica. L’entrata della voce di Bruce è strepitosa ed evocativa, e sentendo le linee vocali non si può non pensare alla sua produzione da solista. La sensazione è che i Maiden stiano giocando con qualcosa di nuovo, mai provato prima da loro. Il ritmo è marziale e, in crescendo, diversi fraseggi e scariche possenti di chitarra invadono il campo: dopo averla sentita in questa versione, ‘The Final Frontier’ mi sembra ingiudicabile senza l’intro ‘Satellite 15…’. Grazie a questi primi quattro minuti, l’intero blocco della prima canzone è molto più contestualizzato nel tema spaziale che caratterizza anche l’artwork del nuovo album. Sul resto della song c’è poco da dire, l’avrete già sentita tutti: canzone rockeggiante di medio livello, con ottimi assoli. Per quanto riguarda la produzione, appoggio in pieno le parole di Bruce pronunciate sul palco durante la leg americana del tour: il disco vero e proprio suona decisamente meglio dell’MP3 di ‘El Dorado’ rilasciato dalla band in rete. Con un buon impianto la batteria è davvero super, il suono del basso è perfetto e le chitarre suonano pulite e potenti: la cura dei suoni è simile a quella di AMOLAD, e molto lontana dal sound un po’ grezzo di Dance Of Death.
2) EL DORADO (Smith/Harris/Dickinson - 6.49 Min.): inutile presentarvi un brano che potete ascoltare ormai da quasi due mesi in rete! :-)
3) MOTHER OF MERCY (Smith/Harris - 5.20 Min.): la canzone prende il via con un riff che richiama da subito le atmosfere e melodie di ‘No More Lies’. La linea vocale interpretata da Bruce è ottima e, a dispetto di quanto offerto sui singoli, il nostro singer sembra davvero ispirato. Con la seconda strofa abbiamo un crescendo di batteria e diverse chitarre che si sfogano con alcune scariche di riff, diversificandosi tra loro. Dopo poco prende il via il solito ritmo galoppante in pieno stile Maiden e troviamo una sorta di bridge melodico con accordi aperti. Il ritornello vede Bruce sgolarsi e si caratterizza subito con melodie più aggressive del resto del brano. Le strutture sono molto variegate e più si prosegue, più si nota la molteplicità delle linee vocali cantate da Dickinson. L’assolo è quasi certamente suonato da Janick e non è male. A circa 3.20 minuti c’è un reprise dell’intro, seguito da una grande apertura melodica sul pre chorus e un ritornello efficace. Nicko si fa notare con fill di batteria pregevoli, alla faccia di chi lo accusa di non saper più suonare (e poi, magari, lo recensisce dal vivo sui classici con il massimo dei voti). Il finale del brano è secco e la canzone nel complesso è buona: la curiosità è alle stelle per i brani successivi!
4) COMING HOME (Smith/Harris/Dickinson - 5.52 Min.): l’inizio questa volta è caratterizzato dalla presenza di tutti gli strumenti insieme, affiancati da sfondi di tastiera. Non so voi, ma sentire queste tastiere e leggere che Adrian è il primo compositore del brano, non mi pare un caso: forse ho troppi déjà vu legati a Somewhere In Time (non è una battuta!) e alla sua carriera AOR di fine anni ottanta, ma queste sono considerazioni da approfondire altrove. ‘Coming Home’ è sostanzialmente una ballata con chitarre acustiche ed elettriche intrecciate tra loro con estrema cura e perizia. La canzone non è ovviamente un piece strappalacrime in stile Scorpions o Europe, ma una ballata elettrica, con strofe che si sviluppano su chitarre distorte. Il ritornello è davvero epico, melodico e romantico, forse il migliore di questa tipologia di song mai scritto dalla band, e Dickinson è un ottimo interprete dei sentimenti evocati dalla canzone, con sfumature nelle linee vocali che richiamano ‘The Legacy’ e ‘Out Of The Shadows’ di AMOLAD. È quasi certamente Dave Murray a lanciarsi nel primo assolo con un suono molto simile a quello di Jimi Hendrix, seguito a ruota dalla solistica super ispirata di Smith. Il ritornello finale giunge in maniera possente, valorizzato dalla struttura dell’intera song. In sostanza, il brano è splendido, uno tra i più riusciti, studiati e curati dell’album e, pur avendo un sound simile a quello di AMOLAD, si sente chiaramente quel qualcosa in più e la voglia di variare sempre il proprio songwriting da parte della band.
5) THE ALCHEMIST (Gers/Harris/Dickinson - 4.29 Min.): sin dai primi secondi di ascolto, il brano rimanda alle sonorità di ‘The Mercenary’. Il tempo della canzone questa volta è veloce, niente arpeggi o introduzioni melodiche: la traccia è potente e scorre in modo lineare, con il basso che spicca e si diverte a dipingere parti molto efficaci. Il pre chorus esplode con un’ottima linea vocale e gli immancabili intrecci di chitarre Maiden-style: la song si fa imperiosa, e in questo caso si può dire che ‘The Alchemist’ non avrebbe sfigurato nel vecchio repertorio della band. Alcune parti di chitarra delle strofe ricordano quelle di ‘Man On The Edge’: il brano sarà sicuramente tritaossa dal vivo. L’assolo ad opera di Janick (non ne ho la certezza assoluta, ma visti i credits e il sound mi sembra scontato) è semplicemente perfetto per questo tipo di canzone ed è seguito da chitarre armonizzate che potrebbero benissimo essere registrate come ‘marchio di fabbrica’ del sestetto inglese. La chiusura è netta: ci voleva un tirata così!
6) ISLE OF AVALON (Smith/Harris - 9.06 Min.): ritorniamo nel presente e a quello che, evidentemente, i Maiden preferiscono fare oggi. ‘Isle Of Avalon’ prende il via con un’intro misteriosa caratterizzata da un basso in grande evidenza e chitarre riverberate che si divertono a invadere la scena con diversi fraseggi melodici. L’atmosfera è un misto tra ‘Seventh Son Of A Seventh Son’ e ‘The Legacy’. Si susseguono presto effetti elettronici, con un ottimo crescendo: fino ad ora il brano è tosto, insolito, una figata! L’introduzione si protrae ma non stanca e Nicko si diverte con i chitarristi ad introdurre parti sempre diverse per spezzare l’andamento della canzone. Con questo metodo, anche le strofe non sono mai veramente uguali tra loro, ma vengono arricchite e rese interessanti: anche qui, scatta subito il pensiero alla possibile resa live e alla memoria di ferro necessaria ai nostri eroi. A circa 2.42 minuti c’è il botto, con Bruce che si lancia nell’ennesima interpretazione vocale ‘parlata’ tipica degli inizi di molti brani post reunion, mentre prosegue il perenne cambio di strutture della canzone. Ci sono anche delle tastiere sullo sfondo e, in generale, l’atmosfera richiamata da questo pezzo si avvicina un po’ a ciò che possiamo intendere per ‘prog’: Nicko pesta sulle pelli in modo irregolare, con continui anticipi e fill dal sapore improvvisato, e il resto degli strumenti va a ruota libera, come se tutti si inseguissero tra loro. Il sound complessivo appare elegante, maturo ed evoluto, compresi gli svariati effetti di chitarra che, a mio avviso, portano ancora il nome di Mr. Smith. Dopo i 5.30 min. rientra la voce (avevo detto che era andata via?!) e abbiamo un reprise dell’introduzione iniziale. A questo punto, mi sono appuntato sul foglio: “Questo è un disco che stupirà i fan e si farà amare dai più”… sarà veramente così?! La cosa certa ed evidente è la voglia della band di uscire dagli schemi, interpretabile in molti modi, ma credo non nella ricerca di denaro facile o scarsa voglia di fare: la cura nella produzione e la lunghezza dei brani suggeriscono tutto l’opposto. Verso i 7.25 min. abbiamo un chiaro rimando a una bella melodia di ‘No More Lies’, e verso gli otto minuti la canzone esaurisce un po’ la sua spinta, trascinandosi un po’ verso il finale e chiudendosi in pieno stile maideniano. Il brano va riascoltato più volte ma, per quanto mi riguarda, è super promosso.
7) STARBLIND (Smith/Harris/Dickinson - 7.48 Min.): nuova introduzione con arpeggio, tastiere e melodie d’atmosfera. Bruce viene molto valorizzato nelle sue parti. Verso i cinquanta secondi spicca il volo un riff di chitarra energico stile ‘Lord Of Light’, anche se la canzone si mantiene sempre su una sorta di mid tempo irregolare, senza decollare. Il ritornello è melodico e ha la stessa struttura delle strofe, fraseggi di chitarra compresi, ma dopo poco cambia e si evolve in modo differente. Ribadisco, ci troviamo davanti a tracce poco lineari, difficili da digerire per gli amanti di ‘The Trooper’ e gran parte degli ultra classici: spuntano sempre elementi nuovi anche nelle strutture ripetute, e non è facile tenere il passo delle canzoni. A 4.05 min. abbiamo un cambio di riff che ricorda la struttura di ‘Paschendale’, con pause totali e ripartenze diverse da tutto il resto della song. Com’era prevedibile, iniziano gli assoli: il sound sviluppato al massimo da AMOLAD è sempre presente. Dopo un minuto esatto (siamo a 5.05) abbiamo un’ennesima variazione melodica, con chitarre efficaci e tastiere sempre presenti, mentre a 5.56 min. c’è un nuovo trionfo di arpeggi e lick, prima del rientro della voce. Chi non ama il nuovo corso della band ha buone possibilità di annoiarsi molto.
8) THE TALISMAN (Gers/Harris - 9.03 Min.): ancora un’intro arpeggiata! Bruce si fa menestrello, l’atmosfera è piuttosto fantasy, la chitarra acustica si sente molto ed è davvero simile a quella di ‘The Legacy’. Questa volta l’introduzione è troppo prolissa: bisogna attendere 2.21 min. prima dell’entrata possente di tutti gli strumenti. L’andamento del brano ricorda un po’ ‘Lord Of Light’. La melodia vocale del ritornello a 2.54 min. è semplicemente strepitosa, tra le più belle dell’ultimo decennio per quanto riguarda i Maiden, e il secondo e terzo chorus sono seguiti da chitarre armonizzate davvero esaltanti: finalmente un ritornello da cantare a squarciagola! Nicko si diverte qua e là con il pedale, abbiamo un bel cambio nel centro e la canzone appare fresca, rendendo l’introduzione iniziale davvero non necessaria. Penso alle tante tribute band maideniane in procinto di studiarsi qualche brano nuovo: ragazzi, avrete difficoltà a riprodurre e tenere a mente tutto! Verso i 5.35 min. arriva una parte vocale completamente diversa, seguita da una strumentale decisamente caotica e troppo incasinata (ognuno suona un po’ per conto suo, con armonie un po’ dissonanti). A 6.44 minuti abbiamo uno stacco che ricorda ‘The Unbeliever’, e la strofa riparte con una nuova cavalcata. Mi ripeto: “Ma quante variazioni devono tenere a mente?!” La canzone resta comunque intrigante e trova il suo apice nell’ultimo ritornello, con Bruce che, subito dopo, va un po’ a ruota libera con la voce, prima di un finale simile a quello di ‘The Clairvoyant’. Confusi? Sentendola, lo sarete di più!
9) THE MAN WHO WOULD BE KING (Murray/Harris - 8.28 Min.): provate a indovinare! Intro di tastiera, arpeggio melodico, chitarra principale che imposta la melodia, voce sussurrata… ormai è lo standard! La linea vocale è bella, ma avrei decisamente preferito un brano impostato in modo diverso, in questa posizione. Verso 1.35 min. prendono il via delle melodie armonizzate di chitarra e il basso si lancia nei tipici accordoni che Harris si diverte a riprodurre ormai dai tempi di Fear Of The Dark. Nicko tiene il tempo col charleston, per poi spostarsi sui tamburi e crescere sul rullante: a 2.24 minuti parte la song vera e propria. Il riffing è sempre stoppato, come in molte parti del disco e di AMOLAD. Il ritornello è melodico, ma decisamente non dei migliori. Verso i 3.58 minuti abbiamo uno stacco dal sapore prog che cambia tutto l’andamento della canzone, e iniziano assoli selvaggi e melodie oniriche di sottofondo. Sui cinque minuti di durata irrompe l’armonizzazione di chitarre e la strofa ricomincia poco dopo. Giudizio? È una canzone di secondo livello, un po’ noiosa e troppo lunga per ciò che offre: a mio avviso, non verrà certamente ricordata tra gli highlight del disco. Verso il finale troviamo nuovamente arpeggi e melodie armonizzate che ricordano per un istante i migliori Metallica (!).
10) WHEN THE WILD WIND BLOWS (Harris - 10.59 Min.): l’ultima canzone, che in passato sarebbe stata la song ‘epica’ dell’album, ma in questo contesto dura solo qualche minuto in più di molti pezzi del disco. Stavolta l’introduzione è affidata a un bellissimo campione che riproduce il vento che soffia (molto più di quello di ‘Alexander The Great’) e vede l’ingresso di accordi di basso, arpeggi e arrangiamenti che riportano alla mente le sonorità di Somewhere In Time. La melodia di chitarra che si sviluppa verso i quarantasei secondi è fantastica e va di pari passo con la linea vocale di Bruce: l’effetto è grandioso. Le chitarre riverberate si intrecciano tra loro a manetta, il vento è sempre presente sullo sfondo e Bruce continua a cantare all’unisono con la melodia di chitarra… davvero meraviglioso! La sua voce e calda e piena, e l’ispirazione ai massimi livelli. Verso i 2.15 min. di durata fanno il loro ingresso le distorsioni, mantenendo la stessa melodia dell’intro, con Bruce che si alza di tonalità e canta nel suo stile più caratteristico, senza mai perdere di vista la linea guida di chitarra. Verso i 3.41 min. troviamo un nuovo cambio, che vede le chitarra sempre protagonista con melodie che continuano a non mollare la parte vocale. In seguito, troviamo degli assoli effettati (Adrian?!) e una bellissima armonizzazione 100% Maiden, su cui presto si sviluppa un nuovo assolo. The Final Frontier è il trionfo delle chitarre soliste e melodiche, non c’è che dire! Si sentono echi anche di No Prayer For The Dying sull’armonizzazione… la canzone è lunga, ma annoia molto meno della precedente, trasudando molta più epicità. A 8.40 min. troviamo nuovi assoli, forse evitabili, e poco dopo i nove minuti sopraggiunge una nuova melodia con basso e chitarre all’unisono. Dopo una trentina di secondi riparte l’intro iniziale, con tanto di effetto ventoso, e la canzone si avvia alla conclusione con Bruce e la splendida melodia portante di chitarra che vanno a braccetto, senza perdersi mai. In chiusura, come prevedibile, rimane solo il vento che sfuma in fade out. Assolutamente grandiosa e da risentire!
Qualche nota per concludere questa lunga anteprima, che spero non vi abbia traumatizzato troppo: il disco dura complessivamente 76.37 minuti e, nonostante una tracklist non molto bilanciata, a mio avviso lascia dietro di sé la voglia di essere riascoltato più volte. Le canzoni più immediate restano sicuramente i due singoli e ‘The Talisman’, mentre il resto è decisamente più ostico da assimilare e analizzare. I brani da skip ci sono e non credo che, album alla mano, ascolterò molto ‘El Dorado’ (decisamente meglio dal vivo per quanto riguarda il tiro, anche in qualità YouTube!) e soprattutto ‘The Man Who Would Be King’. L’evoluzione rispetto ad AMOLAD si sente soprattutto riguardo alla cura dei dettagli, alla valorizzazione delle chitarre e al perfezionamento della produzione in generale. La band non cerca di imitare i Rush e compagnia bella come qualcuno ha sommariamente stabilito (senza peraltro entrare per mezza riga nel merito delle canzoni) ma elabora elementi che negli ultimi dieci anni sono aumentati esponenzialmente a dismisura nei dischi composti: lunghe intro, parti lente e atmosferiche, melodie orecchiabili e canzoni non troppo veloci, con numerosi cambi di riff e strutture, a volte evidenti e manifesti, altre caratterizzati unicamente dall’aggiunta di qualche passaggio atipico e traccia di chitarra in più qua e là. Come i Maiden non giocavano a fare i punkettoni a inizio anni ottanta, adesso non giocano a improvvisarsi Dream Theater solo perché scrivono brani lunghi, poco lineari e con qualche anticipo di batteria: il progressive è un’altra cosa e quando la band si riferisce a questo genere nelle interviste, credo lo faccia unicamente per esprimere con un concetto semplice da capire per tutti la tendenza a voler sperimentare, improvvisare e scrivere materiale che non sia caratterizzato da strofa/bridge/ritornello/assoli/chiusura come molti dei capolavori partoriti in tenera età. Ripeto: questo non è indice di superiorità manifesta del ‘nuovo corso’, tantomeno di porcheria intrinseca. È una scelta, presumo condivisa da tutti nella band e caldeggiata in particolare da Dickinson, Harris e Smith, che in primis deve far contenta il gruppo che entra in studio e sale sul palco. Resto ancora fermamente convinto che andare a impantanarsi i piedi scrivendo brani di sette/otto minuti di durata media con mille chitarre e strutture mutevoli non sia esattamente un segnale di pigrizia o svogliatezza, così come penso che, se necessario, i Maiden sarebbero ancora in grado di scrivere un album che si avvicini a The Number Of The Beast per tiro e immediatezza dei brani: semplicemente, non vogliono farlo. Perché non gli interessa, e probabilmente non ne vedono il motivo. E questo, come per tutti i grandi nomi, non può far altro che deludere e rendere felici molti fan di ogni età, con la premessa che, se i nuovi dischi dei Deep Purple (e altri) continuano a vendere di meno e la band mantiene solamente un buon seguito dal vivo di gente che vuole sentire Gillan cantare ‘Smoke On The Water’, quelli dei Maiden raggiungono posizioni in classifica inaudite in molti paesi del mondo, andando a ruba nell’era di Internet e del download gratuito e istantaneo, con copertine non eclatanti e artwork sicuramente non ammalianti come quelli della decade ottantiana. Questo, perlomeno, ci fa capire perché la band sia così convinta del valore di ciò che propone, probabilmente avendo la certezza che i soldi sono uguali e preziosi per tutti e chi è insicuro o disprezza, di questi tempi, non compra: scarica e cestina.
Un ringraziamento sincero a Ivan e Raffaella di EMI Music Italia per la gentilezza, professionalità e tutto il tempo concessomi!
Cristiano Canali