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Tanto vale esser onesti: in termini di puro riscontro commerciale, la carriera musicale extra-Maiden del nostro adorato Adrian Smith è stata un mesto susseguirsi di fallimenti. Sin dai tempi dell’hard rock melodico degli Urchin, passando per l’aor patinato del progetto ASAP e terminando con le tentazioni zeppeliniane e grunge degli Psycho Motel, il buon "H" non è mai riuscito ad imporsi in un mercato discografico che ha sempre accolto in maniera glaciale le sue scorribande fuori dalla band madre.
E questo, si badi bene, a prescindere dalla qualità degli album prodotti: i due sfortunatissimi album dei già citati Psycho Motel, ad esempio, erano letteralmente infarciti di ottime canzoni. Tuttavia, a parte i più incalliti fans della Vergine di Ferro, nessuno è parso accorgersene. Ironicamente, hanno goduto di maggior successo le collaborazioni “esterne”, nelle quali non era Smith il motore artistico e compositivo, con grandi cantanti metal: ricordiamo una saltuaria partecipazione al solo album di Michael Kiske (parliamo dello splendido Instant Clarity del 1996) e poi il proficuo ritorno con l’altro figliol prodigo Bruce Dickinson, che ha generato due dischi epocali quali Accident of Birth e The Chemical Wedding. Infine, il (graditissimo) ritorno negli Iron, con conseguenti vendite milionarie e tour internazionali. Ma evidentemente ad Adrian non bastava. Ed ecco che, alla veneranda età di 55 anni, il biondo crinito chitarrista prova ad infrangere una volta per tutte il pernicioso “tabu da trasferta” con un bizzarro progetto denominato Primal Rock Rebellion. Ora, lo scrivente non è affatto in grado di avanzare pronostici circa il successo del cd in termini di vendite, né ha modo di sapere se H riuscirà finalmente a cancellare questo piccolo neo in una carriera a dir poco trionfale. In realtà, ritengo si stia discutendo di un falso problema posto che, a mio modo di vedere, l’obiettivo cui il platter tende è ben più nobile e alto, e può essere efficacemente riassunto dal termine “urgenza artistica”. Ne parleremo più compiutamente in seguito, ma sin da ora è importante evidenziare come l’esigenza di sperimentazione, di contaminazione, di confronto con altre realtà musicali trasudi letteralmente da ogni poro del cd. Vedremo ora con che risultati…
Dapprima, i freddi dati: il titolo dell’album, distribuito da Spinefarm, è Awoken Broken. Adrian si occupa delle parti di chitarra (ovviamente) e di basso (!), mentre lyrics e vocals sono state affidate a Mike Goodman (ex singer dei SikTh). Completano la line-up Dan Foord alla batteria ed Abi Fry alla viola. In secondo luogo, un’importante premessa: ho già avuto modo di leggere, in giro per il web, numerose critiche al progetto, reo di aver dato alla luce un platter noioso, monocorde, ma soprattutto troppo “alternativo”. Ebbene, mi permetto di dissentire in modo energico. Le doglianze di cui sopra, pur essendo ovviamente rispettabilissime, presentano a mio avviso due gravi vizi di fondo: la frettolosità e la superficialità con cui sono state formulate. Per fruire appieno di questo album servono pazienza, apertura mentale ed il totale abbandono di qualsivoglia idea precostituita. Dunque, sgombriamo il campo da equivoci: non troverete una singola traccia di Maiden in nessuno dei 53 minuti di musica presenti, nemmeno sforzandovi. Ma non solo: lo stesso, classico stile chitarristico di Smith è qui completamente assente. Non attendetevi un riffing fluido ed elegante, bensì un minaccioso coacervo di trame nervose, quadrate, quasi industrial (l’accordatura è notevolmente ribassata rispetto al solito). Dimenticate i commoventi assoli dalle melodie talmente memorabili da rimanere in testa come il migliore dei ritornelli: al loro posto troverete fraseggi brevi, snelli, in genere asserviti alla forma-canzone. In Awoken Broken non c’è spazio per epici tour de force o agili cavalcate: qui tutto è cupo, monolitico, ostile. In tal senso, trovo che l’artwork sia perfettamente esemplificativo del mood dell’album, che si configura come una sorta di lugubre, inesorabile discesa negli inferi interiori di una mente fragile e disturbata. In tal modo giungiamo ad un importante snodo della recensione: il fattore X, Mike Goodman. Chi abbia avuto modo di ascoltare, nelle scorse settimane, le due canzoni in anteprima (I See Lights ed il singolo No Place Like Home) se ne sarà già ampiamente accorto: anche sotto il profilo vocale siamo ben lungi dalla safe zone del tipico fan della Vergine. Lo stile dell’ex singer dei SikTh è quanto di più versatile e spiazzante si possa immaginare: il suo spettro canoro ed interpretativo spazia, apparentemente senza difficoltà alcuna, in decine di direzioni differenti, anche all’interno dello stesso brano. Per un attimo cavernoso e maligno, nevrotico e squillante un istante dopo, melodico e controllato quello successivo. Tale schizofrenica alternanza potrà risultare difficile da digerire in prima istanza, ma col passare degli ascolti conquista sempre più, sino ad acquisire lo status di fondamentale punto di forza del lavoro. Da un lato, infatti, imprime nelle canzoni una qualità di freschezza ed imprevedibilità, che rischiava di venir soffocata dalla grande quantità di mid tempo presenti sull’album. Dall’altro, funge da perfetta cornice per l’immaginario malevolo e nebbioso disegnato dai testi, in favore dei quali appare doveroso spendere più di una lode. Le lyrics di Goodman sembrano addirittura fondersi con le plumbee partiture musicali, formando con esse un connubio inscindibile ed organico. L’ascoltatore viene letteralmente investito da lividi sfoghi, da disperate grida d’aiuto e da amare riflessioni sull’alienazione e la delinquenza urbana, sulle malattie mentali e sul dolore che deriva dall’abbandono. Piace evidenziare il perfetto equilibrio linguistico presente in quasi tutti i testi, che riesce a far convivere concretezza e simbolismo, prosa e poesia, in una serie di affreschi dai tratti violenti ma carichi di fascino. Breve cenno in merito alla sezione ritmica. Promosso a pieni voti il nostro Adrian in veste di bassista. La sua prestazione non ci induce a gridare al miracolo sotto il profilo tecnico, ma è perfettamente in linea col feeling dell’album. Le linee terribilmente groovy e l’esecuzione vigorosa creano un vincente sodalizio col drumming possente e cadenzato di Dan Foord. Infine, i delicati ricami disegnati dalla viola di Abi Fry riescono ad impreziosire il tessuto strumentale dei brani, e garantiscono altresì maggior eleganza all’arrangiamento. La produzione del disco, curata dagli stessi Smith e Goodman, è ottima e azzeccata. I suoni giungono compressi, saturi, potenti; la voce del singer, sulla quale ritengo si sia lavorato molto in fase di mixing, esce dalle casse in modo davvero nitido, riuscendo così a farci gustare appieno ognuna delle sue mille sfumature. Tutto perfetto, quindi? Niente affatto. A mio modesto avviso, si possono scovare alcuni punti deboli qua e là: mi riferisco al cantato “a strappi” utilizzato in alcune strofe, che risulta forzato e troppo vicino allo stile di alcuni interpreti nu metal di cui non sentivamo certo la mancanza; alla presenza di alcuni brani che lasciano nella bocca dell’ascoltatore lo spiacevole retrogusto di filler (principale indiziata: Savage World); ad alcuni assoli troppo involuti e basilari. Per fortuna, i momenti meno felici vengono largamente compensati da altri ben più ispirati: cito, a mero titolo esemplificativo, l’apocalittico chorus di Bright as a Fire, il malinconico incedere folkish di Mirror and the Moon ed il riff assassino di White Street Robes. In conclusione, non posso esimermi dall’incensare il leggendario H per questa uscita discografica, lodevole sia sotto il profilo musicale che sotto quello “ideologico”. In un mercato dominato dalla nostalgia dei bei tempi che furono, monopolizzato da vecchie glorie senza più idee e stimoli che si inventano improbabili, estemporanee reunion ed incidono album senza nerbo, il nostro adorato chitarrista avrebbe potuto giocare sul sicuro. Magari rimanendo nel suo orticello, reclutando alcuni coetanei famosi per qualche giorno ed incidendo insieme a loro un disco pieno di pezzi hard rock alla Deep Purple, magari con qualche brano più Maiden oriented per strizzare l’occhio ad ogni potenziale acquirente. Da una simile operazione nostalgia, con tutta probabilità, sarebbero scaturite buone canzoni ed ottimi incassi, ma nessuna soddisfazione artistica. Io stesso avrei acquistato e ascoltato decine di volte un cd di quel tipo, ma il suo manierismo avrebbe finito quasi certamente per amareggiarmi. Per converso, non si può non applaudire il coraggio di un musicista famoso, non più giovanissimo, che ha scritto pagine indimenticabili di storia della musica metal, nell’abbandonare la sua comfort zone per mettersi in discussione con un genere musicale lontano anni luce dal suo. Applausi che si tramutano giocoforza in standing ovation laddove il risultato dell’esperimento, oltre che ardito e temerario, risulti anche convincente. Ed è il caso di Awoken Broken. Il mio consiglio è quello di procurarsi l’album senza remore ed ascoltarselo in cuffia a volume altissimo, prestando molta attenzione alle lyrics. Dategli tempo, permettetegli di crescere ascolto dopo ascolto e di certo saprà premiarvi, disvelando infine tutto il suo notevole potenziale. Visto che siamo in periodo di crisi imperante e venti euro (o giù di lì) non si spendono mai volentieri, mi permetto un ammonimento: l’avrete già compreso dalle righe precedenti, ma se rientrate nella categoria degli ortodossi, fedeli unicamente al sacro verbo della santissima Vergine di Ferro, evitate questo lavoro come la peste nera. Se tutto ciò che esula dallo stile classico dei nostri eroi (che io stesso amo alla follia, sia ben chiaro!) vi fa storcere il naso, qui non troverete pane per i vostri denti. Ma se volete osare, ed immergervi in un nuovo universo musicale, concedete ai Primal Rock Rebellion la chance che meritano. Ho motivo di ritenere che non la tradiranno.
Marco Caforio
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