Bruce Dickinson - Skunkworks (CD) - 1996 |
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Domenica 27 Maggio 2012 07:57
MaZZo
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| Tutto si può dire o scrivere di Bruce, tranne che sia un artista prevedibile. Tentiamo per un attimo di metterci nei panni del singer di Worksop: il tuo precedente disco solista, seppur buono, fallisce nell’intento di lasciare un segno tangibile nel panorama musicale. Certo: il sound era troppo raffinato, troppo poco metal, semplicemente troppo distante da quello che ti aveva regalato fama e gloria. I fan, evidentemente, non l’hanno capito.
Partendo da simili premesse, la strada da percorrere appare ovvia: smetterla di impantanarsi in sperimentazioni inconsulte, abbandonare l’elusiva ricerca di uno stile originale e personale. Si torna di corsa al caro, vecchio, fumante heavy metal classico che tanto ben si sposa con la tua ugola dorata. Giusto?
Ehm, non esattamente…
L’incipit appena svolto sarebbe perfetto per la quinta fatica di Dickinson, quel meraviglioso Accident of Birth uscito nel 1997. Tuttavia, in questa sede lo scrivente intende soffermarsi sul successore di Balls to Picasso, che al contrario rappresenta il punto di frattura più evidente di Bruce dal suo passato. Provate a riflettere sui seguenti dati: il nostro cantante si taglia i capelli, recluta alcuni giovani musicisti per nulla provenienti dall’universo metal, forma con essi una band il cui monicker non rimanda in alcun modo al suo illustre nome e decide di affidare la produzione dell’album a Jack Endino (sì, proprio quello di Bleach dei Nirvana).
Può bastare come segno di discontinuità dai gloriosi trascorsi maideniani? Niente affatto: le sonorità di Skunkworks si spingono ancora oltre, immergendo l’ascoltatore in un disorientante melting pot musicale dalle tinte alternative e grunge, contraddistinto da composizioni fresche, agili e snelle (solamente tre canzoni, sulle tredici che compongono la tracklist, superano i quattro minuti di durata). Piuttosto scioccante, nevvero?
In effetti per chi, come il sottoscritto, è cresciuto a pane e Powerslave, la transizione è stata tutt’altro che morbida. Ciononostante, dopo aver nuovamente ascoltato con attenzione l’album dopo tanti anni, sono lieto di poter confermare le mie impressioni di allora: Skunkworks è un lavoro eccellente. Lasciate perdere gli sconfortanti dati di vendita che il cd ha registrato, non badate alle accuse scagliate da orde di metaller scandalizzati per il presunto tradimento del loro singer preferito, ma soprattutto non bocciate questo lavoro sulla base di una mera idea preconcetta. Ascoltatelo senza aspettative né pregiudizi, e quasi certamente finirete per apprezzarlo.
Siete ancora diffidenti? Chissà che un’avveduta (almeno mi auguro) disamina dei brani non riesca a convincervi della bontà di questa release...
Skunkworks parte molto bene con Space Race, canzone dal convincente sound alternative, arrangiata con gusto e dotata di un bel chorus. Bruce Bruce, alle prese con un genere apparentemente lontano dalle sue corde, sembra invece a suo agio, ed interpreta con efficacia le parti vocali.
Back from the Edge è un altro degli highlights dell’album (converrà con me lo stesso Dickinson, che l’ha sempre riproposta dal vivo nei suoi successivi tour solisti). Originali le parti di chitarra, fluide e pungenti al tempo stesso (ma il lavoro del fido Dickson rimarrà esemplare per tutta la durata dell’album). Il drumming martellante conferisce vigore alla composizione, ed il geniale crescendo della linea vocale rende addirittura liberatorio il ritornello. Gran pezzo.
Anche la successiva Inertia incontra il mio sincero gradimento: il pezzo è giocato sul contrasto tra strofa (melodica e intima) e chorus (rabbioso e roboante). Davvero degno di menzione il testo (ispirato dalla guerra in Bosnia), dolorosa riflessione sull’inspiegabile incapacità dell’uomo di progredire ed abbandonare definitivamente la violenza. Particolare, inoltre, il video girato per questa song, in cui la testa di Bruce (ghigliottinato un attimo prima) viene servita su un vassoio pieno di repellenti insetti. Non dev’esser stato particolarmente gradevole girarlo…
La quarta composizione in scaletta, Faith, è anch’essa molto interessante. La melodia delle vocals è realmente insolita per il nostro singer, come d’altra parte le stesse lyrics: una delle pochissime canzoni “d’amore” da lui regalateci nel corso degli anni, ma non risulta per nulla scontata o zuccherosa. Bravi!
Solar Confinement: a mio modo di vedere, ci troviamo di fronte al primo filler di Skunkworks. Canzone non trascendentale, che registra una strofa ben più azzeccata del monotono ritornello. Intrigante, ancora una volta, il testo (sull’emarginazione giovanile).
Purtroppo, nemmeno l’accoppiata Dreamstate/I Will not Accept the Truth riesce a convincere del tutto: noiosetta la prima, involuta e ripetitiva la seconda. Dunque, piccolo momento di stallo dell’album… Peccato.
Fortunatamente, ci pensa la successiva Inside the Machine a superare l’empasse, grazie alle sue deliziose linee vocali e ad un bridge particolarmente ispirato. Promossa a pieni voti.
La nona traccia è intitolata Headswitch, brano veloce (in tutti i sensi, visto che dura poco più di due minuti!) sorretto da un riff palesemente “preso in prestito” ai Soundgarden (band che Dickinson ha sempre ammirato). Un plauso particolare alle lyrics, che riescono a trattare con intelligenza, ironia e senza odiosi moralismi un tema alquanto spinoso (sedia elettrica).
Passiamo poi a Meltdown, la quale si segnala dapprima per una strofa piuttosto affaticata, che fortunatamente cede il passo ad un chorus più articolato e drammatico. Intrigante, anche in questa occasione, il testo, incentrato sui falsi amici che ti abbandonano nei momenti di difficoltà (leggasi: dopo che Bruce decise di lasciare i Maiden).
Altro centro con la song intitolata Octavia: traccia dal mood rilassato, reminiscente delle agrodolci atmosfere tipiche dei migliori Stone Temple Pilots. Davvero buona, nulla da dire.
Per Inner Space dev’essere imbastito il medesimo discorso fatto per Solar Confinement: nulla di sbagliato, ma nemmeno di epocale. Melodie poco incisive, ritornello non memorabile. In una parola: marginale. Mi permetto di inserire una piccola nota di colore: il tema del cambiamento, da sempre particolarmente caro a Dickinson, lo porta addirittura a riciclare una bellissima frase (“nothing lasts forever but the certainty of change”) già utilizzata nella crepuscolare Darkness be my Friend (b-side risalente alla Tattooed Millionaire-era).
Skunkworks spara l’ultima cartuccia con Strange Death in Paradise. Il colpo sarà andato a segno? La risposta è si, eccome: a mio modesto avviso, stiamo al cospetto del vero capolavoro dell’album. L’iniziale atmosfera sospesa, di calma prima della tempesta, conduce per mano l’ascoltatore ad un delicato break strumentale, in cui nere nubi paiono addensarsi sulla sua testa. D’improvviso, il brano esplode letteralmente, e lo trascina con sé in un insondabile abisso sonoro. In mezzo all’apocalittico marasma creato dagli strumenti, s’innalza il sovrannaturale grido di rabbia di un Bruce ai massimi livelli in termini di epicità, estensione ed espressività. Il tema trattato dal brano (una riflessione sulle conseguenze dell’infame bomba atomica sganciata da un aereo americano su Hiroshima nel 6 agosto del 1945) non può che accrescerne ulteriormente l’impatto emotivo: sembra davvero di ascoltare il lancinante urlo di un dio, adirato per l’umana stoltezza, innalzarsi oltre il frastuono della deflagrazione. Da brividi.
Spero che il track by track abbia destato l’attenzione del lettore; ma se questi fosse ancora dubbioso circa l’opportunità di ripescare il piccolo gioiellino chiamato Skunkworks, posso altresì aggiungere che la sua re-issue in doppio cd (uscita nel 2005) presenta un invitante dischetto bonus colmo di chicche da collezionisti. Particolarmente degne di nota, a parere dello scrivente, la demenziale I’m in a Band with an Italian Drummer, dedicata al batterista della band, Alessandro Elena (che al termine del brano ci regala un memorabile quanto volgare monologo italo/inglese), la convulsa sfuriata di God’s not Coming Back e le evocative atmosfere folk di R101 (sostanzialmente una Ramble On Part 2, in cui Bruce addirittura si diverte a scimmiottare il celebre stile canoro di Robert Plant) e Re-Entry (meno spudorata, ma pur sempre zeppeliniana sino al midollo).
Non insisterò oltre nella mia umile opera di convincimento: se non avete preclusioni nei confronti del grunge e dell’alternative rock anni ’90, e se vi stuzzica l’idea di ascoltare il singer dei Maiden in un contesto musicale diverso dal solito, fate vostro questo lavoro. Vi troverete tra le mani un pugno di canzoni originali, arrangiate con gusto, ben suonate ed impreziosite dalla inestimabile voce di Bruce. E scusate se è poco…
Marco Caforio