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Bruce Dickinson - Balls To Picasso (CD) - 1994 PDF Stampa E-mail
Sabato 12 Maggio 2012 06:55 MaZZo   

BallsToPicasso


( 3 Voti )

Ah, l’esaltante sapore della libertà…
Nessun paletto artistico entro cui rimanere confinati, nessuna regola compositiva alla quale attenersi, nessun bassista cocciuto da convincere della bontà delle proprie idee…
Immagino sia stato questo il seducente immaginario che agitava le inquiete nottate di Bruce durante i primi anni novanta.
La volontà di farcela unicamente con le proprie forze e di affrancarsi dalle compiacenti spire di un successo sì planetario, ma altrettanto sterile emotivamente, ha acceso in Dickinson la scintilla in grado di far esplodere la polveriera Maiden (al di là delle solite, e stucchevoli, dichiarazioni di facciata dei diretti interessati, pronti a giurare sullo split amichevole). Quindi, dopo pochi anni dal doloroso abbandono del chitarrista Adrian Smith, la Vergine di Ferro si è vista altresì depauperata di uno dei migliori cantanti e front-man della storia del rock, alla ricerca di un’affermazione artistica che potesse sentire veramente sua.
Esigenza comprensibile, intento lodevole… Ma il nostro Bruce aveva le doti necessarie per riuscire nell’arduo compito? Basandosi sull’unico precedente (quel Tattooed Millionaire risalente al 1990), la risposta avrebbe potuto al massimo essere “ni”: l’album in analisi era discreto, ma ben lungi dal capolavoro o, per rimanere in tema, dai migliori lavori incisi con gli Iron. Tuttavia, questa volta le premesse erano più promettenti: maggior tempo per rifinire le composizioni, motivazioni al massimo e grande voglia di dimostrare il proprio valore al mondo intero.
Cerchiamo di capire, dunque, come si sia sviluppata l’avventura…
L’incipit, ad onor del vero, non fu dei più promettenti: a lungo indeciso sul sound da conferire al disco, il singer britannico tentò dapprima (siamo nel 1992, ed il cantante è ancora parte della Maiden family) di avvalersi dei servigi dei musicisti provenienti dalla band Skin e del produttore Chris Tsangarides (con cui aveva collaborato per il già citato Tattooed Millionaire). Insoddisfatto del risultato (troppo canonico per le sue esigenze di rinnovamento stilistico), Bruce Bruce decise di abbandonare tutto, di partire per Los Angeles e di rivolgersi al celebre producer Keith Olsen (a curriculum, tra gli altri, Whitesnake e Fleetwood Mac), alla ricerca di un sound davvero fresco ed innovativo. Ma anche il secondo tentativo, ahimé, si conclude malamente: il risultato, una sorta di dark-prog-pop elettronico alla Peter Gabriel, non soddisfa (e a ragione!) nessuno degli interessati. Poi, finalmente, la svolta: Dickinson comunica alla band madre che ha intenzione di lasciare; parallelamente, s’imbatte in una bizzarra band brasiliana chiamata Tribe of Gypsies, da lui giustamente inquadrati come una sorta di crossover fra Santana e Rage Against the Machine. Profondamente invaghitosi delle loro capacità, la Air Raid Siren decide di tornare a Londra e di ripartire da zero, confidando nell’ottimo feeling umano e compositivo nato col chitarrista della band, tale Roy Z. I nostri eroi, quindi, si chiudono nei Metropolis Studios di Chiswick (distretto sud-occidentale di Londra che ha dato i natali a Pete Townshend e John Entwistle degli Who) col produttore Shay Baby (già ingegnere del suono del summenzionato Olsen). Il parto del loro lavoro, ovviamente, si chiama Balls To Picasso.
Esaurita la contestualizzazione storica, non ci resta che affrontare la questione più spinosa: siamo al cospetto di un lavoro di qualità?
La risposta al quesito non può che essere affermativa. Non tutto funziona come dovrebbe, ed alcune soluzioni paiono davvero forzate e fuori fuoco, ma di certo si sta discutendo di un platter colmo di spunti interessanti, di idee convincenti e di esperimenti arditi.
In ogni caso è un disco strano, questo Balls To Picasso: molto eterogeneo, con pochissime concessioni al metal classico, infarcito di composizioni dai ritmi medi o lenti e di arrangiamenti avventurosi: vi sono percussioni tribali, chitarre latineggianti, filtri vocali e altre soluzioni mai sperimentate prima da Dickinson. La produzione, di recente, è stata  aspramente criticata dallo stesso Bruce e da Roy Z, ma mi permetto umilmente di dissentire. Certo, i suoni sono ben poco heavy, graffianti e incisivi; tuttavia, ciò influisce negativamente giusto su un paio di pezzi (citerei, in tal senso, l’opener Cyclops e la famosa Laughing in the Hiding Bush, in effetti più convincente nelle versione “metallizzata” presente sul live album Scream For Me Brasil del 1999). Per il resto, trovo che il feeling ricercato dell’album ben si sposi con la produzione raffinata e pulita scelta da Shay Baby. Ricercato, dicevamo: in effetti, canzoni come Hello No, Gods of War e 1000 Points of Light stupiscono positivamente per l’originalità delle linee vocali e per le buone intuizioni melodiche. Pur rimanendo ancorate allo stilema strofa-bridge-ritornello, le composizioni suonano originali ed ispirate. La stessa voce di Bruce, qui raramente impostata sulle tonalità vertiginose che l’hanno resa celebre, si fa apprezzare per il calibro impeccabile e per l’interpretazione, sempre calda e ricca di pathos.
Purtroppo, la spasmodica voglia di dimostrare la propria poliedricità e duttilità ha giocato qualche brutto scherzo, conducendo il singer britannico su sentieri alquanto cedevoli. Lo scrivente non è affatto contrario alla sperimentazione in quanto tale, purché essa porti ad esiti soddisfacenti sotto il profilo squisitamente musicale. Duole dirlo, ma alcuni brani non premiano il coraggio dei compositori: la melensa, zuccherosa Change of Heart e la convulsa, pressoché inascoltabile strofa di Sacred Cowboys (peccato, perché il tagliente testo contro il consumismo e l’epico chorus erano tutt’altro che disprezzabili) ci ricordano tristemente che non sempre l’innovazione va a braccetto con la qualità. Nemmeno il rock stradaiolo e sbarazzino di Shoot All The Clowns riesce a convincere, ma nel caso di specie va riconosciuta a Dickinson l’attenuante generica dell’imposizione della casa discografica (che voleva un singolo easy listening e Aerosmith-oriented per lanciare l’album; Bruce compose e registrò  il brano in fretta e furia con Roy Z, salvo poi disconoscerlo artisticamente).
Ordunque, abbiamo sommariamente inquadrato la seconda fatica solista di Dickinson: album interessante, raffinato, originale, in grado di crescere con gli ascolti, parzialmente azzoppato da due-tre tracce sottotono. Nulla che faccia gridare al miracolo, quindi? Niente affatto: Balls To Picasso registra un clamoroso colpo di coda, un finale glorioso che permette di inquadrare l’intero platter in un’ottica ben più benevola. Stiamo parlando, ovviamente, dell’ultima song presente su dischetto, ovvero quel capolavoro assoluto che risponde al nome di Tears of the Dragon.
Per quei pochi che non la conoscessero, si sta discettando di una delle più belle rock ballads di tutti i tempi. Il brano è graziato da una inarrivabile intensità emotiva, che nasce dallo splendido giro di chitarra acustica della strofa, si propaga in un ritornello triste e maestoso al tempo stesso, esplode nel meraviglioso assolo di Roy Z e si stempera nel finale da lacrima assicurata. La prestazione vocale di Bruce è addirittura mostruosa: oltre alle doti innate che ben conosciamo, si percepisce chiaramente il trasporto con cui il singer interpreta le amare parole del testo (che, nonostante le metafore utilizzate, mette chiaramente a nudo l’infelicità e la frustrazione che covava in seno ai Maiden). Semplicemente sublime.
Mai come in questo caso, infine, mi sento di consigliare l’edizione in doppio cd uscita nel 2005: alcune rarità presenti sul corposo disco bonus sono davvero succulente.
Mi permetto di citare, a mero titolo esemplificativo, l’avvincente Fire Child, le divertenti digressioni di Elvis Has Left the Building e The Post Alternative Seattle Fall Out, l’inaspettatamente maideniana The Breeding House e le bizzarre suggestioni elettroniche presenti in Over and Out e Tibet.
Insomma, bravo Bruce: la tua decisione di abbandonare gli Iron ci ha fatto soffrire orribilmente, ma ci ha altresì regalato un disco davvero pregevole.

Marco Caforio